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MOSTRE

MACCHINA DA PRESA

Maurizio Brunialti
Catalogo della mostra Macchina da presa
Bari videns

Con la mostra Macchina da presa la nota fotografa barese Luciana Galli arricchisce di una nuova sfumatura il proprio bouquet di strumenti espressivi.
Col passaggio dallo scatto fotografico alla ripresa video, dalle immagini ferme a quelle in movimento, la Galli introduce un’ulteriore dimensione interpretativa e realizza, in un certo senso, una sorta di salto quantico, compiendo un importante (quanto suggestivo) passo in avanti nel proprio, pluriennale, personale percorso di ricerca visuale.
In uno scenario mediale in così rapida evoluzione le innovazioni tecnologiche – e quindi stilistiche – rappresentano una sfida che la Galli, prontamente, raccoglie. E lo fa conservando quello sguardo critico e quella capacità compositiva che, da sempre, caratterizzano la sua produzione.
Divincolandosi, di certo temporaneamente, dalle pur sempre suggestive regole della fotografia, l’artista non rinuncia ad analizzare il contesto urbano in cui è immersa ma lo fa con un approccio e con uno strumento nuovo, tipicamente contemporaneo.
Attraverso l’utilizzo di uno smartphone le sue incursioni nel territorio, nella socialità e negli spazi urbani (oggetti privilegiati delle numerose esposizioni, personali e collettive, realizzate in oltre cinquant’anni di attività), assumono una prospettiva insolita, un punto di vista inedito e, per molti versi, sorprendente.
Luciana Galli sperimenta una modalità d’indagine, un’esplorazione del paesaggio circostante con la sensibilità e la passione di un’antropologa, spiccatamente visuale. È un’esplorazione che ribalta l’ordinaria percezione di chi, quotidianamente e distrattamente, attraversa la città.Concedendosi – sulla scorta dell’esperienza di Baudelaire prima e di Walter Benjamin dopo – una sorta di flânerie 3.0, l’artista percorre a velocità costante le strade di Bari, adagiando il cellulare sul cruscotto della propria auto e posizionando l’obiettivo della fotocamera verso l’alto. Durante gli spostamenti, quindi, lo smartphone non registra quel che la Galli incontra (e vede) lungo il percorso ma inquadra, di volta in volta, le porzioni di azzurro che si stagliano fra i palazzi, il volo delle rondini nel cielo sovrastante, le geometrie cangianti dei cavi dei filobus, le coreografie dei tiranti d’acciaio del Ponte Adriatico o la danza degli elementi architettonici e delle pareti degli edifici innescata dalla dinamica delle riprese. Il risultato è sempre suggestivo, a volte addirittura straniante.
L’uso creativo del device risulta particolarmente fecondo nelle mani dell’autrice. Forme, spazi, elementi, segni, frammenti. Un reportage che restituisce un flusso di immagini tanto ricco da alimentare un apparato espositivo alquanto articolato. In una decina di monitor scorrono altrettanti video che dialogano con un’installazione di formato 16:9 (lo stesso formato delle attuali smart tv) composta da 56 fotogrammi (per esser precisi si tratta di frames) estrapolati dai medesimi, succitati, video.
Ogni filmato, così come ogni fotogramma, è quasi un haiku, un lavoro di sintesi. In alcuni video, arricchiti da suoni e rumori d’ambiente captati durante gli spostamenti, l’osservatore più sensibile potrà sperimentare – proustianamente – il proprio Effetto Madeleine: anche nella Bari inquadrata dal basso alcuni particolari riconoscibili disincagliano ricordi del passato, evocano familiarità, richiamano appartenenza, identità.
Non di sola memoria involontaria, però, vive la Bari della Galli.
Le carrellate di ripresa effettuate col naso all’insù, i piani sequenza, gli attraversamenti e la mappatura dei luoghi proposti dall’autrice sembrano richiedere una compartecipazione, un ruolo attivo, da parte dello spettatore. Un’interazione persistente fra produttore e fruitore di significati, un dialogo in cui l’osservatore prende tempo per riflettere.
In questi suoi lavori, lo si è detto, Luciana Galli adotta una prospettiva (forse non solo cinematografica) insolita, un’angolazione senza precedenti. L’autrice è vicina e fuori dal campo di ripresa ma, oltre a mettere in discussione una modalità classica di rappresentazione filmica, sembra suggerirci, sottovoce, qualcosa che va oltre un’inquadratura, che prescinde dalla grammatica delle immagini fisse e in movimento.
Attraversare la città reale prediligendo un punto di ripresa inusuale – assumendo, in fin dei conti, la postura orizzontale di un neonato nella culla o di una persona che giace o riposa nel proprio letto – vuol dire anche rinegoziare il proprio approccio con lo scorrere del tempo e con lo spazio che ci circonda.
Forse per questo le opere della Galli sono in grado di creare con lo spettatore questa magica e inaspettata connessione. La dilatazione della temporalità, l’assenza dell’elemento umano in uno scenario comunque fortemente antropizzato e la ridefinizione spesso fantasmagorica dei luoghi e della quotidianità creano una dimensione sospesa, facilitando una deriva quasi di ispirazione situazionista.
In Macchina da presa si scopre una Bari differente. È una Bari vista o sognata, raccontata o immaginata. È un viaggio introspettivo fra memoria e nostalgia, fra realtà e narrazione. Ed è un progetto che “rischia” anche di rilanciare una riflessione autentica (e, perché no, collettiva) su una città in continuo mutamento, stretta, a volte drammaticamente, fra voglia di futuro, cliché e disincanto.
Maurizio Brunialti – Sociologo

Antonella Marino
Catalogo della mostra Macchina da presa
“La città che sale”

Nitide, concentrate, esatte. Ma insieme mobili e mutevoli, per certi versi disorientanti.  Le immagini che scorrono nei dieci video inediti di Luciana Galli, presentati in anteprima alla Fondazione Pino Pascali, coinvolgono l’osservatore in un percorso esperenziale che intriga, appaga la vista e al tempo stesso spiazza, aprendo margini di visione e di interpretazione. L’occhio della fotografa barese – da molti anni impegnata ad indagare con lucido rigore la scena urbana, locale e internazionale -  è solitamente ordinatore, metrico e stereometrico. Ama le simmetrie e predilige un’impaginazione razionale. Nel suo approccio ai luoghi, Bari in primis ma anche le tante realtà attraversate nei suoi viaggi come Lisbona o Cuba, opera sempre una “semplificazione geometrica”, nata da un bisogno di bellezza che sublima le imperfezioni, costringendo anche l’informe a diventare forma. Ridefinisce cioè architettonicamente gli spazi, con preoccupazione peculiare per gli aspetti compositivi, puntando sugli equilibri ritmici.
Elementi che si ritrovano in questo nuovissimo ciclo di lavori nei quali Luciana si cimenta, quasi per la prima volta, con la videocamera. Eppure non tutto è scontato in questi micro filmati luminosi e vertiginosi, dove “gira il mondo gira nello spazio senza fine”, per citare il celebre ritornello di Jimmy Fontana. Il soggetto è certamente Bari, lo si riconosce da alcuni, frammentati dettagli. Ma è una Bari diversa, esperita rivolgendo lo sguardo da sotto in su. Nei grandi monitor disposti in diverse stanze si succedono così frammenti di cieli tersi, con le cime di alti alberi spogli che svettano, si spostano, s’incrociano, disegnando eleganti grafie. Altrove sono le geometrie colorate dei palazzi a ruotare entro campi ristretti, costruendo incroci ortogonali, prospettive verticali, volumetrie solide, paratie tridimensionali. Oppure, più graficamente, i cavi bianchi di un grande ponte si spandono con traiettorie precise e fughe diagonali contro l’azzurro aereo. Mentre i fili elettrici tratteggiano linee e segni vettoriali, e minuscole sagome di gabbiani punteggiano il vuoto… Tutto poi ruota sopra di noi, in una danza destabilizzante che ci cattura in un ritmo ipnotico, talvolta rallentato, scandito dal sottofondo di suoni catturati dalla strada. Trovano esemplare amplificazione in un video non più solare ma nebuloso, con la pioggia che batte martellante sul vetro e il cielo grigio che assorbe le forme, le liquefà in un indistinto visivo, le rende confuse e tende al bianco…
Che si tratti di Bari si capisce, almeno per chi la conosce. S’intuiscono i tratti distintivi dei quartieri al di qua della città vecchia: il Murattiano squadrato; il solido Umbertino; il popolare Madonnella. E più nello specifico, il lungomare sud con la ruota panoramica; il nuovo ponte Adriatico; gli ippocastani di viale della Repubblica… Tracce di una città cangiante in cui passato e presente si collegano, le testimonianze antropiche convivono con squarci di natura. Però, se vogliamo, il riconoscimento non è così essenziale. Quello che conta è il metodo, l’approccio decostruttivo e ricostruttivo di Luciana Galli. Conta soprattutto la proposta di spostare il punto di vista, invertire lo sguardo, in senso fisico ma anche figurato. Ce l’hanno insegnato tanti artisti (Giulio Paolini o George Baselitz, tra gli altri): capovolgere il focus di visione significa indicare una prospettiva differente, indicare un diverso modo di vedere, e dunque di pensare. Per favorire questa scelta, Galli si avvale di uno specialissimo filtro, si fa aiutare da una protesi esterna che finora avevamo tenuto nascosta. Senza svelare troppo (l’autrice ci tiene ai suoi segreti tecnici), qualcosa va detta. Ebbene, in questa nuova avventura Luciana ha trovato un fedele aiutante, il suo iPhone 12. Non un semplice dispositivo nelle sue mani, come le diverse macchine fotografiche di cui si è accompagnata negli anni (ultima una piccola Leica digitale) ma una vera e propria “specie compagna” (estensione al territorio dell’inorganico della celebre espressione di Donna Haraway) con cui ha stretto un patto di collaborazione. Al telefonino ha affidato infatti il compito di registrare il percorso durante i viaggi in auto, mentre lei stava al volante per le strade di Bari. Col display puntato verso l’alto, l’iPhone ha ripreso queste peregrinazioni urbane, quasi derive psicografiche per un neo-situazionismo 2.0. Enfatizzati dai rumori grezzi dello sterzo, delle frecce di svolta, del cambio, i movimenti dell’autrice lungo le vie baresi, con i suoi insistenti andirivieni, le giravolte e i girotondi, le sterzate, i raddrizzamenti, le manovre di parcheggio vengono segnalati dall’interno della macchina, che si trasforma così in efficiente “macchina da presa”.
In tal modo Luciana Galli solleva anche il tema della relazione tra umani e invenzione tecnologica, problematicamente attuale in tempi di attese e timori legati all’utilizzo dell’intelligenza artificiale, cui sempre più delegheremo parte delle nostre funzioni e attività. Come ha osservato, tra i primi, Remo Bodei:
Con il progressivo imporsi di macchine in grado di fornire prestazioni sempre più efficaci in campi sempre più estesi, l’individuo moderno abbandona la pretesa di essere l’unico depositario di una razionalità legata in maniera indissolubile a un corpo vivente e a una intelligenza consapevole. La sua razionalità, separandosi dalla coscienza e applicandosi alle macchine grazie all’Intelligenza Artificiale (IA), si congeda dall’illusione tolemaica di avere il monopolio della conoscenza. (“Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine”, Bologna 2019).
L‘operazione conferma dunque l’attitudine sperimentale dell’autrice, già in passato pioniera in Puglia nell’uso di tecniche digitali. Ad esempio, con il computer tempo addietro aveva realizzato innovativi CD-ROM su Bari e creato collage fotografici digitali con effetti di rispecchiamento, ribaltamento e moltiplicazione seriale delle immagini. Diversi anni fa c’era stata pure un’isolata parentesi con la telecamera: utilizzando una Handycam abbinata al computer aveva realizzato “Cam in video”, un primo “video digitale creativo” con distorsioni di astrattismo ottico, ispirato da un saggio del videoartista torinese Alessandro Amaducci. Lo stesso Amaducci, sollecitato sul ruolo delle tecnologie in ambito artistico, ha di recente dichiarato: “da creativo mi interessa poco che la macchina possa meramente sostituirsi all’essere umano attraverso la creazione di semplici pattern. Mi interessano le collaborazioni o le collisioni, anche violente, tra umano e macchina”.
Nel caso della partnership di Luciana con l’iPhone, lasciato libero di riprendere quello che scorre all’altezza del suo campo visivo, la differenza la fa il montaggio. La cura con cui la fotografa barese interviene in post-produzione sugli spezzoni di girato, taglia, ricuce e combina le tessere del puzzle, enfatizzando le relazioni tra gli spazi, unendo spigoli, iterando le traiettorie dei segmenti lineari. L’attitudine attenta all’impaginazione, alle eleganze stilistiche ma senza indulgere a facili tentazioni estetizzanti, ci consegna una versione di Bari quasi astratta. Questa sensazione trova conferma in mostra nei 56 “Frames” fotografici tratti dai video, assemblati a parete come una grande griglia. La griglia, lo sappiamo, è una figura chiave dell’immaginario moderno.  Per la critica d’arte americana Rosalind Krauss questo sistema cartesiano di incroci si fonda su “una modalità di ripetizione il cui contenuto è la natura convenzionale dell’arte stessa”. La griglia allude alla necessità di ricondurre le intuizioni dentro un parametro preciso, è emblema di rigore, di metodo, di senso della misura, del bisogno di controllare le emozioni. Esprime anche una ricerca di difficili equilibri tra volontà di controllo e aspirazione alla libertà.
In effetti, dai riquadri fotografici modulari e dalle inquadrature pulite e leggere che si succedono nei video emerge un’idea di Bari sintetica e razionalista, racchiusa in una limpida geometria e restituita con attitudine costruttiva. Una “città che sale” (Boccioni docet) verso l’alto, e risplende nell’aria protesa a raggiungere la luce. Talmente nitida però che, se pur vera, paradossalmente sembra quasi un rendering, il set per un tour di realtà virtuale. La definizione cristallina, complice la decontestualizzazione dei dettagli, si traduce curiosamente nel suo contrario, produce un’atmosfera di metafisica sospensione. Un po’ come avviene nei quadri di un artista da Galli dichiaratamente amato, Edward Hopper, dove un eccesso di realismo sfuma in un’astanza sospesa e senza tempo.

Cecilia Pavone
Gli orizzonti urbani di Luciana Galli in mostra a Polignano a Mare
Artribune, 15 luglio 2024

Immagini in movimento che narrano orizzonti urbani, scorci dei principali quartieri di Bari ripresi con lo smartphone, in un’ottica razionale di rigorosa costruzione-decostruzione dello spazio. È questo il nucleo della mostra “Luciana Galli. Macchina da presa” in corso alla Fondazione Pascali di Polignano a Mare a cura di Antonella Marino. Dieci le opere video in mostra, che ripercorrono la ricerca di Luciana Galli (Bari 1942) contrassegnata dall’esplorazione di diversi ambiti della fotografia, tra i quali il reportage, la fotografia industriale e di architettura, la street photography, solo per citarne alcuni. Indagatrice di paesaggi urbani locali e internazionali – osservati nel corso dei suoi viaggi in Portogallo e a Cuba – la fotografa della “semplificazione geometrica “gioca, con sguardo antropologico, sull’essenzialità, sull’ “equilibrio ritmico” e sul dinamismo, ma non sull’elemento descrittivo, lasciando ampio margine d’interpretazione dell’opera.

Pietro Marino
La città “sottosopra” della fotografa Galli
Dieci video dell’artista barese al “Pascali” di Polignano
La Gazzetta del Mezzogiorno, 17 luglio 2024

Si è aperta nell’underground del Museo Pascali a Polignano una mostra che dispiega dieci video inediti di Luciana Galli, l’indomita fotografa di lungo corso. Raccolti sotto il titolo anodino “Macchina da presa”, propongono visioni inconsuete di Bari, la città dove lei è nata, vive e lavora. Un’apparente sfasatura che richiede spiegazioni. Da mezzo secolo ormai Bari è un soggetto ossessivo per Luciana. Ha fotografato i suoi luoghi, i suoi riti, la sua gente e i suoi visitatori, gli edifici celebri, con tutte le strategie che il mezzo le suggeriva. Ha alternato l’esigenza documentaria che implica riprese basate sul realismo e una metodica ricerca sperimentale rivolta a scomporre e ricomporre le strutture primarie delle immagini e l’esprit de geometrie delle loro relazioni. Due livelli di ripresa peraltro uniti da “convergenze parallele” su una limpida cultura della forma. Una idea di fotografia che implica comunque una visione cartesiana delle cose, chiara e distinta. Approccio che appariva evidente anche nella sua ultima interpretazione della città con il libro “Bari non è una città italiana” (2021). L’autrice stessa commentava le sue fotografie come un “quadro astratto” e richiamava la “molta arte contemporanea con SolLewitt e Kounellis”. Un processo di “astrazione minuziosa” come quello (segnalava Roberto Lacarbonara) operato dallo scrittore Julio Cortázar, il quale aveva osservato una cartolina illustrata di Bari “sottosopra con gli occhi socchiusi”.
Ora mi viene il sospetto che derivi da quel “sottosopra” la nuova impresa di Luciana Galli.
Ha posato un normale iPhone -dotato di buona telecamera- rivolto verso l’alto, sul cruscotto della sua auto. Si è messa al volante e ha intrapreso percorsi per la città, lasciando che l’occhio meccanico registrasse quel che esso vedeva come una macchina da presa, appunto, ma senza operatore che la orientasse, seguendo solo le direzioni scelte dall’autista. Ne sono sortite visioni di una città da sotto in su che nessun passante può osservare (“solo gli infanti nei loro carrozzini guardano il cielo”, è la notazione poetica che Luciana mi offre, un po’ alla Wim Wenders).
Un diverso “punto di vista” che conferma squarci esatti di una città invisibile: volumi architettonici in rossi e grigi che ritagliano con vertiginosi zigzag campi astratti di azzurro. Una Bari da tardo futurismo, si potrebbe dire, anche perché l’occhio meccanico ha “dovuto” scegliere la città moderna, non si è potuto inoltrare nella città vecchia. Una scorribanda che mi ricorda -anche per il titolo- il film di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa (1929), col quale il maestro del realismo costruttivista russo riprendeva acrobaticamente Odessa.
Ma qui la fotografa ha lasciato fare il suo mestiere alla videocamera digitale, limitandosi alla ovvia selezione delle immagini e alla organizzazione dei video in piani sequenza sotto i 2’. Oltre la conferma identitaria di una Bari inquietamente geometrica sono apparsi voli liberi di uccelli, giochi di nuvole, grafie disegnate da rami d’inverno e dai fili dei tram.   Però poi si è scaricata dal cielo una pioggia che ha prodotto sui vetri dell’auto un quadro informale di movimenti in grigio. Non è dispiaciuta all’artista la distruzione dell’immagine, anzi: l’ha scelta per chiudere su grande schermo questa eccezionale sparizione di Bari, mentre nello spazio si diffonde il rumore sordo dell’auto nella città. Una nuova missione della fotografia per Luciana Galli? O il suo senso del mondo d’oggi, un mondo non più chiaro e distinto?

LISBONA

- Lo spirito di Lisbona sopravvive ed è lo spirito che rende eterne le città […]  Basta che Lisboa sia semplicemente quello che deve essere: colta, moderna, pulita, organizzata. Senza perdere nulla della sua anima –  Con queste parole il premio Nobel per la letteratura, il portoghese José Saramago descrive la Lisbona di oggi. Identica, nelle sensazioni che regala, a quella che è sempre stata nonostante la modernizzazione e i cambiamenti architettonici che negli ultimi anni l’hanno caratterizzata. Le fotografie di Luciana Galli ci portano a percorrere in maniera lineare e imprevedibile le modernità e i simboli eterni della città di Pessoa. Una Lisbona capace di essere tante città al contempo: all’avanguardia e mistica, innovativa ed evocativa.Questo percorso fotografico prova a raccontare tutte le anime della città, tutte le “persone” che Lisbona riesce a essere. Sulle tracce dell’eteronimia pessoana sembra quasi di poter leggere in queste immagini tutta l’impossibilità dell’essere univoco. Lisbona parla con accenti visuali sempre eterogenei, mostra di sé spigoli taglienti e morbide rotondità senza mai però perdere la sua identità specifica. (Massimo Lafronza, invito alla mostra, 11 settembre 2009)

Lisbona, l’icona della città d’inquietudine
Le immagini della capitale portoghese nelle foto di Luciana Galli al BLUorG
Pietro Marino su La Gazzetta del Mezzogiorno, 26 ottobre 2009

Bandiere incrociate del Portogallo si parano solenni nella galleria barese BLUorG di Giuseppe Bellini & famiglia.
Conferiscono quasi crismi di ufficialità, col patrocinio del console onorario portoghese, alla mostra di fotografie su Lisbona, scattate da Luciana Galli.
La fotografia ha rivelato da tempo di non essere registrazione meccanica-chimica di realtà esterna, ma linguaggio a tutti gli effetti. Con tutti i diritti di scelta connessi per il suo autore. Così la fotografa barese di lungo e autorevole corso, impone il suo ésprit de géomètrie, la predilezione per i rigori di ri-costruzione architettonica degli spazi, la concezione del colore come nitida – quasi mentale – definizione di campi, sugli stereotipi dell’immaginario turistico: il folclore malinconico, tra suoni di fado e sentori di baccalà dell’Alfama, lo scosceso quartiere medievale, le pulsazioni della Baixa, la città bassa con le tracce delle inquietudini di Pessoa, le squisitezze delle piastrelle di ceramica, gli azulejos, l’epica del monastero manuelino di San Jeronimo e della torre di Belèm che respira salsedine…
L’Alfama e gli azulejos appaiono anche in queste fotografie. Ma il primo rivela un fianco audacemente ristrutturato e tinteggiato in rosso, i secondi si fissano come immagini scorrenti su una parete-schermo, così come i volumi plastici dei ricordi delle imprese di Vasco de Gama. E il mitico tram 28 che sferraglia sui tornanti della città vecchia è ripreso come fermo-immagine di fantasmi della vita quotidiana.
La luce metallica dell’Atlantico si distende invece sulla Lisbona di Luciana Galli, esaltata dall’alluminio su cui sono stampate le foto, quasi dei pezzi unici.
Definisce con esatte fughe di linee, con ritmi di curve, attraversamenti di diagonali, i punti sospesi e i moli protesi fra acque fredde e cieli pallidi. Indugia sulle gradinate avvolgenti e le superfici cromate della città modernizzata, fra stereometrie di marmi nel Parco delle Nazioni e festosità pop nelle stazioni del metrò e nei palazzi postmoderni. Emerge sulla vista del Barrio Alto dal cerchio di ferro Liberty dell’elevador di Santa Justa.
Sfinisce in miraggi al limite del trompe l’œil, con il finto panorama che sembra portare l’oceano nell’Acquario e i busti solitari contro le vetrate del museo Gulbenkian.

Lisbona, lo sguardo diverso della Galli.
Negli scatti una città moderna, lontana dagli stereotipi della saudade
Antonella Marino su La Repubblica, 28 ottobre 2009

Da Lisbona a Bari, passando per Milano. Dopo una prima tappa nel capoluogo lombardo, il reportage fotografico dedicato a Lisbona da Luciana Galli approda da BLUorG. In galleria si parano trenta stampe lambda di uguale formato (46X70) che la fotografa barese ha realizzato circa un anno fa nella capitale portoghese, tradotte poi in una mostra itinerante. Quello che colpisce ad un’occhiata d’insieme è soprattutto la pulizia formale e la luminosità di queste foto, accentuate dal rigore del supporto in plexiglas.
Lo sguardo di Luciana Galli ci restituisce dunque di Lisbona una visione razionale e moderna, un po’ lontana dal senso di mancanza e di saudade, permeata di malinconica utopia, consegnataci da maestri come Pessoa o Wenders. Questa Lisbona è una città ordinata ed efficiente, colta con tagli aerei e cura dei dettagli attraverso alcuni luoghi del suo presente. Dal Parco delle Nazioni all’Oceanario, dalla stazione centrale al mercato o al lungofiume, le inquadrature si soffermano con lucidità su particolari architettonici, strutture, griglie, geometrie sospese tra mare e cielo. Espressione di un’identità urbana molteplice capace di coniugare il peso del passato con la volontà del futuro.

Lisbona vista dall’obiettivo di Luciana Galli
Marilena Di Tursi sul Corriere del Mezzogiorno, 30 ottobre 2009

Immagini nitide che documentano una città ai confini estremi dell’Occidente europeo di cui si percepisce soprattutto il silenzio. E’ la Lisbona di Luciana Galli, presentata nella personale alla galleria BLUorG di Bari
dopo essere stata  ospitata a Milano nel chiostro della Società Umanitaria (la mostra in entrambe le tappe è sostenuta dal consolato onorario del Portogallo di Bari). Una città sorpresa da uno sguardo secco senza sbavature emozionali, uno sguardo trasversale rivolto ad una realtà dalla quale la fotografa barese, per dirla con Barthes, si fa pungere. Della capitale lusitana cattura elementi identitari come le famose piastrelle blu e bianche, gli azulejos, o il tram che attraversa la città, componenti peculiari del paesaggio urbano che provvede ad ingrandire in modo da decontestualizzarle. In altri casi si sofferma sulle atmosfere di Lisbona, su quel mood malinconico più volte celebrato dalla letteratura da Saramago a Pessoa, che la Galli va a cercare tra il fiume e l’oceano, dove il Tago e l’Atlantico diventano una sola cosa e dove la dimensione orizzontale del panorama suggerisce la perdita di confine, stempera i limiti delle cose e aiuta a perdersi tra il cielo e l’acqua. Luoghi dove un magico controluce può trasformare gli uomini in sagome scure, le scale in piatte strisce di cemento sottratte ad una coltre di sabbia e i colori in un palpitante e morbido bianco/nero.
Ma non c’è solo la Lisbona dei luoghi più abusati, c’è anche la nuova città, quella dell’Expo con le sue ardite architetture colte in scatti dove l’assenza umana è compensata da un’eloquente messa a fuoco degli avveniristici edifici per una discesa nel reale vigile, sebbene tarata su di un occhio interiore.

SEGNALIBRO

Amor di Segnalibro
Pietro Marino su La Gazzetta del Mezzogiorno, 15 maggio 2003

Chi ama la lettura, chi ha con i libri un rapporto non occasionale, non da fast food, un appuntamento sistematico, non può fare a meno del segnalibro: ovvero quel fustellino che viene messo fra le pagine ad indicare la tappa di percorso compiuto. Quindi funziona anche da promemoria delle emozioni o riflessioni raccolte (ma c’è chi ricorre sbrigativamente all’orrenda pratica delle orecchiette, una forma di violenza e di tortura cartacea). Peraltro, la consuetudine pratica induce spesso ad un rapporto di culto, simbolico e totemico con gli oggetti: oggetti d’affezione, li chiamava Man Ray.
Anche la precaria linguetta di carta o di cartone che ha sostituito nastri e cordoncini di un tempo, tende ad assumere una sua qualità estetica. Viene a far parte di quel sistema di comunicazione visiva al cui centro c’è ancora il libro, sotto specie di oggetto del design.
Un sistema di cultura grafica che ha una lunghissima tradizione, dai tempi della manualità (pensare ai codici miniati) al Bauhaus, per dire.
Poi l’economia di massa, che regola anche il mercato del libro, ha finito per trascurare la qualità degli accessori (quasi scomparsi, per esempio, gli ex libris, i marchi che segnavano la personalità di possesso): salvo che per operazioni di nicchia, come i gadget raffinati, quando non scadono nel kitsch, nei bookshops dei grandi musei.
Questi pensieri sparsi mi sono sollecitati da una singolare mostra in corso presso la Libreria Feltrinelli di Bari. Una mostra di segnalibri, appunto: raccolti in ordinate serie dentro cornici, come quadri. Quasi a rivendicare la loro appartenenza al sistema dell’arte. Ma quel che conta è la novità dell’invenzione, nata da una costola che non è quella specifica del design grafico. Autrice ne è, infatti, Luciana Galli, che di professione è fotografa. Ben nota, non starò a ricordare le sue numerose prove: mostre, libri, portfolios e, da qualche tempo, cd multimediali e interattivi. Come quel Bari type di grande successo, giunto alla terza edizione, che propone diverse sequenze di immagini inedite della Città, e Pixel di Puglia.
Luciana è una pioniera della fotografia digitale nella Regione. La prima forse, certo la più sistematica nello sperimentare le potenzialità del computer come manipolatore e moltiplicatore di immagini, creatore di strutture e campi nuovi di visione. L’interesse della Galli si è concentrato sugli effetti di ordine gestaltico, per così dire: ritmi seriali, ripetizioni dissociazioni rotazioni (ricordo una sua personale di un paio d’anni fa presso l’Alliance di Mimmo D’Oria).
Da qui un campionario di articolate soluzioni che sfruttano la dimensione lunga e stretta del segnalibro, la sua figura geometrica di striscia. Anche con varianti d’uso più ricche, come il folder (immagini che scorrono lungo una linguetta che viene tirata) o la clip che arpiona la pagina. Ben dieci pannelli, altrettanti diversi temi, con 94 prototipi. Si va dalle lussureggianti decorazioni di gusto orientale suggerite dal capsicum fastigatum, che altro non è che il peperoncino rosso, alle vere e proprie narrazioni, quasi strip in miniatura. Come la leggenda della cape du turchie, la misteriosa scultura in Bari Vecchia, intrecciata con la scopa della Befana.
O le storie di San Nicola nelle pale dipinte dai pittori baresi per il Corteo storico, cui si contrappongono visioni surreali della Basilica o del campanile della Cattedrale moltiplicato e volante, con esplicita citazione da Magritte. I simboli (ormai pressoché scomparsi) sui trulli ispirano una serie grafica di pura valenza segnaletica. Mentre sull’ordine astratto di antiche tapisseries vanno le decorazioni cavate da vecchie copertine di libri.

ACCROCHAGES

Combinazioni di immagini frammentate, accostate, ritagliate, affinità visive, multipli di elementi o di parti di un insieme senza altre alterazioni producono effetti di spiazzamento e ampliamento della realtà. (Dal comunicato stampa dell’Artoteca Alliance, 9 febbraio 1996).

LE SALINE

Questa vivace fotografa, dall’ormai lunghissimo curriculum, pieno di premi e riconoscimenti, ama usare la macchina fotografica anche come mezzo di studio.
Perciò è bene considerare le sue foto reali documenti.
Esse sono innanzi tutto tecnicamente pregevoli il geometrismo dei tagli compositivi: l’obliquità o le curve disegnate da rotaie e carrelli, l’impostazione orizzontale o verticale in consonanza e in contrappunto ai soggetti scelti a volta a volta, la ricerca compositiva coloristico-luminosa e la calibratura dei rapporti di dimensione dei vari elementi, come volume e come colore. Vorrei raccontare le immagini diversissime ove i cieli sono tutti diversi: uniti di piatto pervinca, azzurri velati da nubi sfrangiate evanescenti, amplissimi di un tenero celeste che si specchia nell’acqua rosata; cieli raggiunti da monti ruvidi, da monti candidi o grigiastri o scagliosi, irti o compatti o scolpiti in calanchi verticali su cui la luce si aggrappa, o brulicante di piccoli escavatori – rossi, gialli e verdi giocattoli infantili.
Invece non sono giocattoli, sono escavatori veri, guidati da uomini veri, abbronzati dal caldo sole, che il costante vento della Salina mitiga appena, animando col suo respiro salmastro e la lieve voce il pesante silenzio.
Qui si perde il senso delle reali dimensioni delle cose e degli uomini. Gli spazi, le montagne, i ponteggi, i macchinari, tutto è enorme e, dall’alto delle strutture metalliche, l’orizzonte appare sconfinato. (Maria Letizia Verardi, presentazione in catalogo, Margherita di Savoia 1986)

Tra documento e sogno
Anna D’Elia su La Gazzetta del Mezzogiorno, 22 ottobre 1986

Tra documento e sogno, le fotografie di Luciana Galli sulle Saline di Margherita di Savoia vivono la dimensione del reale e dell’irreale. Ad esprimersi è la doppia anima dell’autrice, che quanto più fa leva su un linguaggio geometrico dai tagli rigorosi e dalle inquadrature regolari, tanto più esprime la sua passione metafisica.Le immagini vivono in una sospensione magica, che le pone fuori di ogni tempo o spazio definiti e le fotografie, esempio tipico di “documento creativo”, pur non venendo meno alla funzione di testimonianze, alimentano quella fame di evasione fantastica, che caratterizza ogni personalità creativa. L’autrice non nasconde la suggestione ricevuta dai luoghi, fotografati in ore e stagioni diverse, alla ricerca delle varianti minime capaci di caratterizzare questo posto dominato – come sottolinea la fotografa – dall’assenza totale di dimensione. Di qui l’effetto di spiazzamento  e spaesamento, che consente le fughe dal  reale verso i segreti dell’inconscio.

Le Saline

Italo Zannier su Fotologia n.7 -1987

Ogni immagine di Luciana Galli, al di là dell’inevitabile “documentazione”, è una pertinente, suggestiva figura retorica su questo habitat, che sembra appartenere a un pianeta alieno, ma che qui è proposto senza estetismi, bensì con un ottimistico residuo di fiducia nel potere del mass medium fotografia: per mostrare, spiegare e, se possibile, migliorare, cambiare…

PLASTICA, RIFIUTI E NO

Il significato di questa mostra si annuncia proprio dalla visione della fotografa Galli, intenta ad oggettualizzare tutte le forme che nella Plastica si reificano, diventano cose. Il nostro mondo di cose, ambivalenti, equivoche, belle finché collocate nell’utile, sgradevoli e invadenti fino a diventare rifiuto quando, perso ogni diletto, ce ne liberiamo, buttandole sui bordi delle strade, lungo le rive del mare, nel panorama delle periferie e delle campagne. Il centro focale – e perché no sentimentale e retorico – di questa corsa fra le immondizie, denunciata da Italia Nostra e documentata dall’obiettivo della Galli, sta nella carriola traboccante garofani, registro di femminili, caduche vanità, ma anche e insieme frammento di un perduto hortus voluptatum, sognato per l’appagamento dei sensi e il godimento dell’intelletto. Il percorso della passeggiata nel rifiuto inizia, invece, fra le curve del ferro arrugginito, ormai labile preistoria delle civiltà del consumo e si addentra nella foresta dei segni generati dalla Plastica nei linguaggi quotidiani, discendenti da genealogie di lattine, bidoni, vasche, buste, ossessioni circolari che s’incastrano in strani incesti fra tecnologie e materia, natura ed artifici. Fino alla Città, dove l’Apocalisse non precipiterà mai più dall’alto dei cieli con il suo travolgente spavento a far giustizia del “bello” e del “brutto”, ma si consuma già nei Rifiuti di tutti i giorni, sull’orlo di bidoni traboccanti, nel sonno dell’Uomo sul Marciapiede, vuoto a perdere. Ci sembra, attraverso le fotografie, tutto abituale. Il brutto perfino fotogenico, come si usava dire per la miseria. Con una differenza, forse: la plastica non invecchia, non assorbe ricordi, non rivela malinconie, non trasforma tonalità di colore. Non agonizza e non muore, come il legno o la pietra e gli uomini. Essa resta fuori dell’Organismo vegetante – suggerisce la scrittura fotografica di Luciana Galli – quindi materia privata di storicizzazioni. Non si trasforma e non rinasce. Come a dire il No Universale. (Emanuela Angiuli, invito alla mostra, 1.12.1985)

Due mondi nella piscina
Anna D’Elia su La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 dicembre 1985

Plastica e pietra. Plastica e campagna. Plastica e città. Potremmo mai fare a meno della plastica? Basta dare un’occhiata in giro per rispondere subito: no. Se vogliamo andar cauti e ricominciare da capo non va persa un’occasione preziosa. E’ la mostra fotografica di Luciana Galli a Santa Scolastica di Bari organizzata dalla sezione barese di Italia Nostra. L’autrice compie un viaggio nel tempo e nello spazio sulle orme di civiltà perdute, lontano nel tempo fino all’era del ferro e della pietra. Ironia e gioco di metafore non mancano nella sequenza che dai “primordi” arriva fino a noi, alla città e alla tecnologia, con cui la plastica può – infine – trovare la sua sublimazione collaborando alla ricerca spaziale. Dentro il Museo della Scienza di Washington la Galli fotografa l’ultima navicella di ritorno dal cosmo e si riappacifica col mondo artificiale della celluloide che invade le strade di rifiuti, deturpa i monumenti con lattine, contamina il verde con rottami, invade le città di rifiuti non biodegradabili. Eppure lo sguardo fotografico di Luciana Galli di rado è accusatorio. Più spesso le sue immagini sottolineano certi particolari decorativi, anche casuali, che legano alle lingue auliche, come i monumenti, le espressioni popolari.

Fotografie nella loro realtà sociologica
Santa Fizzarotti sul Quotidiano di Puglia, 18 dicembre 1985

La storia della plastica non è altro che la storia del Novecento, del secolo che ha conosciuto le grandi rivoluzioni del pensiero scientifico, del pensiero filosofico, del pensiero psicoanalitico; l’arte è sintesi problematica delle varie situazioni culturali, è filtro magico capace di svelare i segreti più reconditi del pensiero, è possibilità di salvezza. Luciana Galli ha fotografato il cammino dei derivati dell’oro nero, del petrolio che garantisce i processi produttivi della civiltà occidentale: le immagini fotografiche dell’artista sono rigorose e precise, studiate in tutti i dettagli, ricche di accesi cromatismi che sottolineano la malinconia dei contenuti.La fotografia diventa così un modo per denunciare lo stato delle cose, una modalità per analizzare gli aspetti conflittuali del nostro tempo, un’occasione per ritrovare la coscienza, una spinta per cambiare.Il gioco dell’ambiguità fra ciò che è vero e ciò che è falso, tra il naturale e l’artificiale, fra il bello e il brutto, costituisce il tessuto su cui lavora l’artista che non cerca nulla se non la poliedricità relativa della verità.

TOYS

Giovanni Giustiziero, agricoltore di Maglie nel Salento, finì in ospedale e cominciò lì ad intagliare nel legno i suoi giocattoli, non immaginava certo che il suo hobby dovesse finire per attirare il mondo degli intellettuali. La chiamammo, diversi anni fa, “arte dei poveri”. Ci interessavano allora varie forme di creatività espresse da aree di cultura emarginate, subalterne o sommerse. Erano i tempi in cui fiorivano le ricerche di taglio antropologico, in qualche modo alternative ai modelli della civiltà industrializzata. E’ invece proprio con l’occhio educato alla comunicazione estetica urbana, che oggi la fotografia di Luciana Galli riscopre quegli oggetti e li ricicla nelle visioni lucenti del Cibachrome. Lo stesso titolo della raccolta Toys, connota questa assimilazione all’interno dei linguaggi ludici “moderni”. E’ un recupero che avviene, fondamentalmente, per il tramite di un metodo proprio delle avanguardie storiche: il processo di spiazzamento. Spiazzamento delle dimensioni: le parti dei carretti, scivoli, pinocchietti mobili nati dalla fantasia artigiana di Giustiziero vengono ingrandite e non-relazionate. Assumono l’astanza (direbbe Brandi) di frammenti estrapolati da un “continuo” pittorico o da illimitate strutture astrattive. Spiazzamento dell’immaginazione: i tocchi di colore primario sul ruvido legno trasmutano la loro consistenza materia nelle piena luminosità della carta fotografica, che si propone come pura superficie bi-dimensionale. Spiazzamento della funzione: nei giocattoli contadini il colore serviva, con le sue dissociazioni e i suoi puntillismi accesi e istintivi, a conferire ricchezza decorativa, dignità fantastica alla materia umile e all’oggetto semplice. La fotografia esalta invece piani familiari alle grandi invenzioni dell’arte: la vibrazione post-impressionista del colore sino alla gestualità informale, la strutturazione primaria che trascorre dal costruttivismo alla pop-art. E si integra, infine, nel molteplice sistema della comunicazione segnaletica urbana (dalle insegne alla pubblicità). E’ un lavoro, quello di Luciana Galli, di appropriazione per analogia e per metamorfosi. Una metamorfosi opulenta, che riporta la paziente intuizione manuale dentro l’emozione “borghese” dell’immagine. E’ come scoprire le costanti del Grande Gioco: la felicità sorprendente ed eccitante del colore che virgola e gocciola, l’epifania del segno che traccia cerchi magici, greche e ondulazioni senza fine. Le strutture dell’immaginario.
(Pietro Marino, presentazione della mostra Toys)

Dall’uomo Gutenberg all’uomo elettronico
Anna D’Elia su La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 ottobre 1983

Le fotografie di Luciana Galli, più che in diretta relazione col mondo reale, sono in rapporto con un’altra dimensione creativa: l’artigianato artistico. Nel mirino della fotografa barese entrano le decorazioni fantasiose con cui un vecchio artigiano pugliese, Nino Giustiziero di Maglie, dipinge i suoi giocattoli d’un tempo: carriole, altalene, pulcinella…
La patina luccicante di queste immagini, la giusta inquadratura, la superficie compatta del colore, nobilitano le decorazioni di partenza, trasformando la pittura povera di Giustiziero in sofisticato still life. I rapporti cromatici dettati dal gusto popolare, nel nuovo codice, quello fotografico, si riempiono di nuovi significati. Luciana Galli dimostra come il sistema in cui l’immagine è inserita contenga già tutta una gamma di valori che coincidono con le attese, i modelli e la cultura del destinatario.

PUGLIA

Il rigore della tecnica usata da Luciana Galli, evidentemente congeniale al suo stile, anziché limitare le sue possibilità espressive riesce, al contrario, a sottolineare le sue notevoli doti di sensibile e personalissima interprete del paesaggio meridionale.
Il tentativo di indagare – anziché solo rappresentare – si fa più consapevole quando la Galli sceglie di isolare dal contesto un dettaglio sino a renderne difficile l’identificazione, apparentemente snaturandolo, quindi, in effetti, cogliendo il senso più profondo di una realtà più ampia. Un’operazione apparentemente riduttiva – la limitazione, cioè del soggetto a un particolare, e spesso molto umile – le consente quindi in alcuni casi di andare molto al di là della semplice rappresentazione dell’oggetto contingente e indica forse nuove prospettive per il suo lavoro. (Franca Rossi Chiaia, invito alla mostra all’ Art Directors Club)